Le lesioni cartilaginee della caviglia si verificano in seguito a traumi distorsivi e sono spesso causa di dolore persistente con conseguente limitazione funzionale. La sede più frequente di lesione è il compartimento mediale.
Probabilmente in passato hai subito numerosi traumi distorsivi che hanno determinato la persistenza di dolore, limitazioni dell’articolarità, gonfiore e limitazione dell’attività sportiva.
Le radiografie di pronto soccorso sono sempre indicative.
La RMN è l’esame elettivo, per constatare fratture osteocondrali con spostamento del frammento.
Il trattamento delle lesioni cartilaginee della caviglia differisce a seconda dell’estensione della lesione. Una volta escluso che la lesione è del 4° livello (lesione con spostamento del frammento dove l’approccio è solo chirurgico), si può procedere con un trattamento riabilitativo.
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La fascite plantare è una patologia che riguarda la struttura di tessuto connettivo fibroso che origina dalla tuberosità calcaneare e si inserisce sulle teste metatarsali.
Durante la fase di appoggio nel passo e nella corsa la fascia plantare viene stirata in modo significativo e il punto maggiormente sollecitato è la sua inserzione sul calcagno.
Qui può prodursi nel tempo una calcificazione allungata che segue il decorso della fascia e che radiologicamente produce il tipico sperone calcaneare. La presenza dello sperone non è però necessariamente legata alla sintomatologia: ci sono speroni non dolorosi (riscontrati per caso in una radiografia del piede eseguita per altri motivi) e fasciti plantari molto dolorose ma che radiologicamente non hanno prodotto nessun sperone.
La fascite plantare è una patologia molto comune tra gli sportivi che praticano corsa, ballo, tennis, basket e magari hanno sbagliato la progressione dei carichi di lavoro durante l’allenamento.
Si presenta spesso anche tra gli anziani che sono passati da scarpe con un rialzo a scarpe basse, tra chi per lavoro è costretto ad usare scarpe antiinfortunistica, nei pazienti in sovrappeso e tra coloro che hanno un’alterazione anatomica a livello dell’arco plantare (piede cavo rigido, piede piatto).
In linea di massima questa patologia tende a cronicizzare perché viene spesso trascurata dai pazienti per molti mesi e questo contribuisce a rallentarne la guarigione.
La sintomatologia della fascite plantare è caratterizzata da dolore acuto al mattino e nei movimenti a freddo; il dolore tende a migliorare dopo i primi passi e a riacutizzarsi durante la giornata. Può essere presente un gonfiore circoscritto alla zona dolente. Non di rado i muscoli del polpaccio presentano un deficit di forza e di estensibilità.
Per la diagnosi è utile eseguire una radiografia ed eventualmente un’ecografia.
La terapia immediata prevede il riposo sportivo e l’eliminazione dei fattori predisponenti (uso di calzature idonee e calo ponderale). Potrà essere utile l’uso di plantari per correggere eventuali anomalie a carico dell’arco plantare. Spesso la terapia ad onde d’urto si rivela molto efficace nel risolvere il quadro infiammatorio.
Il tendine d’Achille è il tendine più voluminoso e robusto del nostro organismo.
Sollecitazioni ripetitive negli atleti, o il semplice avanzare dell’età nei sedentari, possono portare ad alterazioni della struttura tendinea fino a rotture parziali o complete del tendine stesso.
La rottura del tendine d’Achille è la conseguenza di una tendinite cronica spesso non riconosciuta o sottovalutata. Colpisce soprattutto i saltatori, i corridori, i calciatori ed i tennisti, realizzandosi come conseguenza di una brusca contrazione muscolare.
La sintomatologia è caratterizzata da un dolore acuto e improvviso nella regione posteriore della gamba, spesso associato a un rumore di “schiocco”. Probabilmente hai avuto la sensazione di aver ricevuto una frustata o un calcio da un avversario. La rottura del tendine d’Achille genera una impotenza funzionale immediata tale da impedire la deambulazione.
La diagnosi si basa essenzialmente sul quadro clinico: a volte è presente un vallo ben evidente in corrispondenza della rottura. Il sospetto diagnostico viene spesso confermato da un esame ecografico che evidenzia molto bene l’interruzione delle fibre tendinee e permette di distinguere tra le rotture totali e quelle subtotali.
Per trattare la rottura del tendine d’Achille è indispensabile intervenire chirurgicamente.
Tenorrafia achillea
Esistono numerosi tipi di sutura del tendine d’Achille. Questo tipo di intervento viene detto tenorrafia achillea e viene oggi eseguita con tecniche che prevedono piccolissime incisioni, tali da ovviare ai disturbi di cicatrizzazione legati alle incisioni molto lunghe, ed in grado di ridurre i tempi di recupero.
L’intervento di tenorrafia achillea viene di solito seguito dall’immobilizzazione con tutore in equinismo per 2-3 settimane e un tutore in flessione neutra per 4 settimane con carico permesso dopo la 4° settimana dall’intervento chirurgico.
Le terapie riabilitative cominciano in genere dalla 4°-5° settimana dall’intervento e si svolgono inizialmente alternando piscina e palestra.
Riabilitazione per rottura del tendine d’Achille
Dopo essere stato sottoposto ad un intervento di tenorrafia il paziente che ha subito la rottura totale del tendine d’Achille si presenta con un tutore bloccato in equinismo a 20° dopo trenta giorni. Dopo il primo mese è possibile effettuare una visita medica accurata e iniziare il programma riabilitativo.
Il primo obiettivo è quello di ridurre la flogosi e il dolore con massoterapia drenante, ultrasuoni ad immersione, laser e di recuperare gradualmente l’articolarità e la corretta deambulazione: per il mese successivo è possibile concedere il carico ma solo con tutore tipo walker; in questa fase sono utili esercitazioni in piscina di mobilizzazione passiva e attiva e allungamento della catena posteriore per permettere un più rapido recupero della mobilità e una più sicura ripresa dello schema del passo.
Ottenuto il carico completo dal chirurgo è possibile progredire nel programma terapeutico in palestra con esercizi di rinforzo concentrico ed eccentrico progressivo dei gemelli, del soleo, dei tibiali, peronei, intrinseci del piede, quadricipite sia a corpo libero che con attrezzi ed esercitazioni aerobiche su bici, ellittica, tapis roullant, per il recupero metabolico; è la fase più lunga ed è importante gestire bene i periodi di carico e scarico di forza per permettere di arrivare al test isocinetico con una differenza di forza tra i due arti < del 20%.
Superato il test, l’ultimo obiettivo è quello del recupero del gesto atletico in campo dove vengono effettuate esercitazioni propedeutiche al recupero della corsa rettilinea, in curva, balzi, percorsi e fondamentali tecnici dello sport praticato.
È fondamentale prima della dimissione aver recuperato il 100% di forza al test isocinetico e aver recuperato l’attività metabolica ottimale misurata con un test di soglia.
Sotto il nome generico di tendinopatia achillea rientrano una serie di patologie di tipo infiammatorio e degenerativo catalogate a seconda dei casi come tendiniti, tendinosi e tendiniti inserzionali.
Possono essere la conseguenza di un evento acuto scatenato da un sovraccarico funzionale o da microtraumi ripetuti spesso favoriti da calzature non idonee, terreni duri o riscaldamento inappropriato prima dell’attività fisica.
Inizialmente i sintomi tendono a peggiorare a riposo (i primi passi al risveglio sono particolarmente fastidiosi) e migliorano “a caldo”. In seguito il dolore non scompare con l’attività ma la limita fino a renderla impossibile. L’errata sollecitazione della porzione distale del tendine può nel tempo portare ad una borsite complicando ulteriormente il quadro clinico.
La diagnosi della tendinopatia achillea si basa sul quadro clinico caratterizzato da dolore, gonfiore, arrossamento della cute, e viene confermata dall’ecografia che chiarisce sede, grado ed estensione della lesione.
Il trattamento di una tendinopatia è sempre molto delicato e le possibilità di successo dipendono dalla gravità del quadro patologico e dal tempo di insorgenza della sintomatologia. È comunque fondamentale impostare precocemente il trattamento riabilitativo.
La fratture del metatarso più frequente è quella che riguarda il IVº e il Vº metatarso e nella maggioranza dei casi non viene operata.
Il quinto metatarso è l’osso più lungo della parte esterna del piede. La frattura del quinto metatarso del piede può essere di due tipi:
• frattura da avulsione: una porzione di osso viene strappata via da un tendine o da un legamento; solitamente si manifesta in seguito a una distorsione della caviglia, dopo una ricaduta da un salto o dopo un infortunio improvviso (incidenti motociclistici e automobilistici);
• frattura da stress: colpisce soprattutto gli anziani e gli sportivi all’inizio della stagione sportiva; è dovuta a un utilizzo eccessivo o ripetitivo dell’osso metatarsale.
La frattura meta si presenta con dolore acuto nella parte esterna del piede, rigidità, gonfiore, formazione di ematomi, difficoltà di deambulazione.
Per la diagnosi corretta è indispensabile effettuare una radiografia del piede.
Nel caso della frattura del metatarso è possibile optare per un trattamento non chirurgico oppure per un intervento chirurgico.
Il trattamento non chirurgico è previsto quando la frattura è localizzata fra l’unione della parte extra-articolare e intra-articolare della protuberanza del quinto metatarso; oppure presso l’articolazione prossimale del quinto metatarso.
Di solito è necessaria l’immobilizzazione dell’articolazione con un gesso per almeno 30 giorni, dopo i quali si apprezza frequentemente una notevole ipotrofia dei muscoli della gamba.
Il trattamento chirurgico invece prevede un innesto osseo o l’inserimento di una vite intramidollare (osteosintesi) ed è consigliato a tutti gli sportivi e nel caso in cui la frattura si manifesta presso l’articolazione distale del quinto metatarso oppure nella parte centrale del quinto metatarso.
Il periodo riabilitativo in seguito alla frattura metatarsale inizia con un carico sfiorante e progressivo sino all’abbandono completo delle stampelle.
È indispensabile recuperare articolarità, fluidità e propriocezione. Viene impostato un programma di rinforzo muscolare di tutto l’arto inferiore, fino alla riabilitazione sul campo sport specifica.
Nel caso di osteosintesi, il percorso riabilitativo non cambia nella sostanza. Sarà anzi possibile ipotizzare una riduzione dei tempi riabilitativi nella concessione del carico.
Le distorsione della caviglia fa parte dell’esperienza di molte persone anche non sportive, ma rappresentano indubbiamente l’evento accidentale più frequente nella carriera sportiva di un atleta.
Il più frequente meccanismo di distorsione della caviglia è in inversione (rotazione interna della pianta del piede) ma può essere anche causato da una eversione (rotazione esterna della pianta del piede) e a volte i due meccanismi possono coesistere.
Il legamento maggiormente interessato nel meccanismo lesivo in inversione è il peroneo astragalico anteriore (PAA) seguito dal peroneo-calcaneare (PC) e dal peroneo astragalico posteriore (PAP), mentre le lesioni in eversione determinano una lesione a carico del legamento deltoideo.
Nel caso di distorsione della caviglia, il gonfiore è in genere immediato e il dolore può essere molto intenso; i movimenti sono molto limitati dal gonfiore e la stabilità della caviglia è compromessa nei gradi più avanzati.
In un’articolazione molto gonfia la radiografia viene quasi sempre effettuata per escludere che vi siano fratture. L’ecografia effettuata a distanza di alcuni giorni consente di evidenziare la lesione delle strutture legamentose tipiche della distorsione. In casi selezionati l’esame può essere completato con una RMN o TC.
Il trattamento riabilitativo delle lesioni traumatiche acute è fondamentale per il ripristino della stabilità della caviglia e della sua funzionalità dinamica. Alla fine del ciclo riabilitativo è poi importante che il paziente esegua un programma di mantenimento allo scopo di evitare o minimizzare le recidive.
Riabilitazione per distorsione della caviglia
La distorsione della caviglia, nella maggior parte dei casi avviene in pazienti che praticano attività sportiva, ma si può presentare anche nella vita quotidiana. Frequentemente il trauma è in inversione, ma può anche presentarsi in eversione.
Nella maggior parte dei casi il paziente dopo il trauma è già stato al pronto soccorso e quindi già in possesso di una RX per escludere fratture e ha un taping o tutore per immobilizzare l’articolazione; si presenta nel nostro centro già il giorno dopo il trauma per una visita e un’ecografia per determinare il grado della distorsione (in base al numero di lesioni legamentose). Solo con una diagnosi accurata è possibile determinare il programma terapeutico adeguato.
Il primo obiettivo del protocollo è la riduzione del gonfiore e del dolore attraverso l’utilizzo di ultrasuoni ad immersione, laser e massaggio drenante e ghiaccio; in questa fase si parla di protocollo RICE , acronimo che definisce le procedure da seguire, Rest (riposo), Ice (ghiaccio), Compression (compressione), Elevation (arto in scarico).
Una volta ridotto il gonfiore si deve recuperare l’articolarità della caviglia attraverso un pompage soft della tibio-tarsica, mobilizzazioni attive e passive, stretching specifico dei muscoli della gamba e massaggio dei muscoli del piede con l’obiettivo di recuperare la deambulazione corretta.
Contestualmente si può iniziare la parte più importante del protocollo terapeutico, quella del recupero della forza e della propriocezione, attraverso esercizi di tonificazione dei muscoli che sottendono alla caviglia, come il polpaccio, tibiale anteriore e posteriore, peronei, intrinseci del piede, muscoli plantari.
In questa fase è importante anche il rinforzo dei muscoli della core e del medio gluteo (importante per stabilizzare lateralmente l’arto).
Successivamente si può procedere ad esercitazioni più complesse come tavolette propriocettive, percorsi, balzi su tappeto elastico, andature talloni-punte su bordo interno/esterno.
L’ultima fase del programma terapeutico prevede la rieducazione sul campo sportivo con andature specifiche dello sport di provenienza, corsa in curva, percorsi, balzi e fondamentali specifici e un programma di prevenzione delle recidive.
Le frattura del malleolo puo’ verificarsi per traumi sportivi, incidenti stradali, domestici o sul lavoro. Nella maggior parte dei casi è necessario un periodo di 30–40 giorni d’immobilizzazione con gesso o tutore.
Conseguentemente all’immobilizzazione la caviglia sarà rigida e sarà evidente una marcata e generalizzata ipotrofia muscolare.
Quando il medico ti visiterà, è fondamentale che abbia a disposizione tutte le radiografie effettuate. In particolare, è decisiva quella di controllo dopo la rimozione del gesso: solo se la frattura è ben consolidata e i malleoli sono in asse avremo un buon esito riabilitativo.
Per il pieno recupero la rieducazione dura a lungo e i tempi per consentire il carico vanno condivisi con l’ortopedico. Vengono utilizzate terapie fisiche e farmacologiche per ridurre dolore e gonfiore, terapie manuali e linfodrenaggio, esercizi propriocettivi precoci introdotti con il progredire del carico ed esercizi di rinforzo della muscolatura della caviglia. Precocemente in alternanza alla palestra per favorire il recupero della schema corretto del passo è indispensabile la rieducazione in acqua.
Intervento per frattura del malleolo
La frattura del malleolo è tra le più comuni fratture dell’arto inferiore: interessa il malleolo interno e il malleolo esterno, e spesso è associata a lesioni legamentose della caviglia.
La frattura che coinvolge i due malleoli e la porzione posteriore della tibia è definita frattura trimalleolare.
A seconda della diversa tipologia di frattura vengono effettuati interventi chirurgici diversi, con l’utilizzo di svariati mezzi di sintesi, o con fissatore esterno.
Il percorso riabilitativo può iniziare dopo un periodo di gesso, oppure con il fissatore. È importante tenere a mente che si tratta di una rieducazione lunga ed impegnativa, che richiede mediamente 4 mesi per il recupero di una funzionalità discreta ed 8 mesi per il recupero dell’attività sportiva agonistica.
In genere dopo un anno dall’intervento viene consigliata la rimozione dei mezzi di sintesi.
Il trattamento riabilitativo dopo la rimozione dei mezzi di sintesi viene effettuato per almeno un mese.
Il neuroma di Morton è riconducibile ad un rigonfiamento dei rami del nervo plantare che decorrono tra il IIº e il IIIº e tra il IIIº ed il IVº metatarso.
La compressione del nervo tra le teste metatarsali è determinata dai microtraumi che si verificano durante la deambulazione e dall’utilizzo di scarpe troppo strette.
La sintomatologia legata al Neuroma di Morton è rappresentata da dolore a comparsa improvvisa, spesso paragonata ad una scossa elettrica. Spesso coesistono parestesie sulle due dita interessate.
La diagnosi è essenzialmente clinica ma la conferma può avvenire attraverso un’ecografia o una risonanza magnetica (RMN).
Il trattamento è inizialmente conservativo ma nei casi refrattari si deve ricorrere all’intervento chirurgico che consiste nell’asportazione del neuroma.
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