Lesioni cartilaginee della caviglia

Le lesioni cartilaginee della caviglia si verificano in seguito a traumi distorsivi e sono spesso causa di dolore persistente con conseguente limitazione funzionale. La sede più frequente di lesione è il compartimento mediale.
Probabilmente in passato hai subito numerosi traumi distorsivi che hanno determinato la persistenza di dolore, limitazioni dell’articolarità, gonfiore e limitazione dell’attività sportiva.
Le radiografie di pronto soccorso sono sempre indicative.
La RMN è l’esame elettivo, per constatare fratture osteocondrali con spostamento del frammento.
Il trattamento delle lesioni cartilaginee della caviglia differisce a seconda dell’estensione della lesione. Una volta escluso che la lesione è del 4° livello (lesione con spostamento del frammento dove l’approccio è solo chirurgico), si può procedere con un trattamento riabilitativo.

Lesione del legamento crociato posteriore

La lesione del legamento crociato posteriore (LCP) è molto più rara di quella del legamento crociato anteriore (LCA).
La causa è spesso di tipo traumatico (impatto del ginocchio contro il cruscotto dell’auto durante un incidente stradale oppure in molti sport di contatto).
La lesione del legamento crociato posteriore può essere di I°, II° o III° grado, a seconda dell’entità del danno.
La sintomatologia immediata della rottura del legamento crociato posteriore (LCP) è piuttosto subdola. Il paziente avverte una sensazione di instabilità e di dolore posteriore, che persistono anche dopo la fase acuta.
Il trattamento conservativo della lesione del legamento crociato posteriore (LCP) rappresenta la prima soluzione. Inizialmente il percorso riabilitativo è simile a quello delle più comuni distorsioni del ginocchio ed in seguito vanno messe in atto strategie specifiche per la lesione del legamento crociato posteriore.
Il trattamento chirurgico è riservato solo in caso d’ instabilità anche dopo il trattamento conservativo.
Nella riabilitazione post-intervento occorre procedere con cautela nel recupero della flessione attiva, evitare contrazioni isolate dei flessori per i primi tre mesi e aspettare almeno un mese prima di concedere la deambulazione libera.
È invece importante da subito potenziare il quadricipite, prima con elettrostimolazioni poi con esercizi attivi.

Riabilitazione per rottura del legamento crociato posteriore (LCP)
All’inizio il trattamento riabilitativo è simile a quello delle più comuni distorsioni di ginocchio con l’obbiettivo di ridurre il gonfiore e recupere l’articolarità, prestando attenzione ad evitare movimenti di estensione massimale del ginocchio.
Una volta raggiunto l’obiettivo si può passare alla fase del recupero muscolare, in primo luogo dei muscoli che limitano l’iperestensione, quali flessori di ginocchio sia in modalità concentrica che eccentrica e tricipite surale, in particolar modo i gemelli; contestualmente verranno rinforzati il quadricipite, soprattutto con esercizi eccentrici, ai quali verranno abbinati esercizi propriocettivi e coordinativi.
Il lavoro in acqua consente un recupero precoce in termini di articolarità e schema del passo.

Fascite plantare

La fascite plantare è una patologia che riguarda la struttura di tessuto connettivo fibroso che origina dalla tuberosità calcaneare e si inserisce sulle teste metatarsali.
Durante la fase di appoggio nel passo e nella corsa la fascia plantare viene stirata in modo significativo e il punto maggiormente sollecitato è la sua inserzione sul calcagno.
Qui può prodursi nel tempo una calcificazione allungata che segue il decorso della fascia e che radiologicamente produce il tipico sperone calcaneare. La presenza dello sperone non è però necessariamente legata alla sintomatologia: ci sono speroni non dolorosi (riscontrati per caso in una radiografia del piede eseguita per altri motivi) e fasciti plantari molto dolorose ma che radiologicamente non hanno prodotto nessun sperone.
La fascite plantare è una patologia molto comune tra gli sportivi che praticano corsa, ballo, tennis, basket e magari hanno sbagliato la progressione dei carichi di lavoro durante l’allenamento.
Si presenta spesso anche tra gli anziani che sono passati da scarpe con un rialzo a scarpe basse, tra chi per lavoro è costretto ad usare scarpe antiinfortunistica, nei pazienti in sovrappeso e tra coloro che hanno un’alterazione anatomica a livello dell’arco plantare (piede cavo rigido, piede piatto).
In linea di massima questa patologia tende a cronicizzare perché viene spesso trascurata dai pazienti per molti mesi e questo contribuisce a rallentarne la guarigione.
La sintomatologia della fascite plantare è caratterizzata da dolore acuto al mattino e nei movimenti a freddo; il dolore tende a migliorare dopo i primi passi e a riacutizzarsi durante la giornata. Può essere presente un gonfiore circoscritto alla zona dolente. Non di rado i muscoli del polpaccio presentano un deficit di forza e di estensibilità.
Per la diagnosi è utile eseguire una radiografia ed eventualmente un’ecografia.
La terapia immediata prevede il riposo sportivo e l’eliminazione dei fattori predisponenti (uso di calzature idonee e calo ponderale). Potrà essere utile l’uso di plantari per correggere eventuali anomalie a carico dell’arco plantare. Spesso la terapia ad onde d’urto si rivela molto efficace nel risolvere il quadro infiammatorio.

L’artrosi del ginocchio

L’artrosi del ginocchio (detta anche gonartrosi) è un processo molto frequente, prevalentemente degenerativo, caratterizzato dall’usura e dall’invecchiamento, ma si può manifestare anticipatamente se originata da lesioni traumatiche non trattate correttamente in età giovanile.
Contemporaneamente ai fenomeni degenerativi si realizzano dei tentativi di riparazione che riducono il dolore ma, accentuando la formazione di ossificazioni periarticolari, provocano limitazioni del movimento che possono essere molto invalidanti.
L’artrosi del ginocchio può insorgere su articolazioni sane o essere l’inevitabile conseguenza di alterazioni della meccanica articolare, esiti di malformazioni o traumi. È più frequente nelle donne, e nei pazienti in sovrappeso. Esistono poi particolari attività lavorative che dimostrano quanto la ripetizione di alcuni gesti, una postura viziata, il sovraccarico funzionale possano, a lungo andare, produrre danni articolari irreversibili.
I sintomi dell’artrosi del ginocchio (gonartrosi) sono in genere: dolore, gonfiore, deambulazione con zoppia, sensazione di impaccio dell’articolazione e rumori articolari detti scrosci.
La diagnosi è clinica e radiografica. Le radiografie evidenziano le alterazioni del profilo scheletrico ormai molto accentuate, mentre TAC e RMN rilevano le precoci irregolarità delle cartilagini.

L’intervento di protesi al ginocchio
L’intervento di protesi di ginocchio è consigliato nei casi più gravi di artrosi con un quadro radiografico molto compromesso.
In genere si consiglia l’esecuzione dell’intervento di protesi di ginocchio in pazienti oltre i 60 anni, sia in considerazione della durata delle protesi, sia perché con l’età la richiesta di prestazioni fisiche è minore.
La chirurgia protesica dovrebbe essere ritardata il più a lungo possibile nei pazienti che continuano a conservare una funzionalità sufficiente ed hanno un dolore tollerabile.
La riabilitazione dopo intervento di protesi di ginocchio ha come obiettivi il recupero dell’articolarità, della forza muscolare, della coordinazione, e dello schema del cammino, tanto più difficili da ottenere quanto più la situazione dell’arto prima dell’intervento era compromessa.

Riabilitazione per artrosi al ginocchio
A differenza di quanto si può comunemente pensare il paziente affetto da gonartrosi ottiene enormi vantaggi da un prolungato ciclo di riabilitazione effettuato in piscina e palestra. Il successo del trattamento dipende ovviamente dalla gravità della malattia, ma anche molto dalla serietà con cui il paziente lo intraprende.
Si deve subito chiarire con il paziente che la patologia di cui è affetto è cronica e ingravescente per cui non possiamo guarirlo, ma possiamo però insegnargli a conviverci senza dover troppo soffrire e senza dover rinunciare completamente alle attività fisiche.
Un trattamento riabilitativo efficace deve mirare a controllare i sintomi con terapie fisiche (laser, ultrasuoni, ionoforesi) e massaggi; ridurre il peso con adeguati consigli alimentari; potenziare la muscolatura con esercizi perché solo lavorando sugli ammortizzatori muscolari si può preservare l’articolazione (si eseguiranno dapprima esercizi cauti e blandi di tonificazione del quadricipite, dei flessori e del polpaccio sia in catena cinetica chiusa che aperta e successivamente si potrà iniziare l’attività aerobica).

Rottura del tendine d’achille

Il tendine d’Achille è il tendine più voluminoso e robusto del nostro organismo.
Sollecitazioni ripetitive negli atleti, o il semplice avanzare dell’età nei sedentari, possono portare ad alterazioni della struttura tendinea fino a rotture parziali o complete del tendine stesso.
La rottura del tendine d’Achille è la conseguenza di una tendinite cronica spesso non riconosciuta o sottovalutata. Colpisce soprattutto i saltatori, i corridori, i calciatori ed i tennisti, realizzandosi come conseguenza di una brusca contrazione muscolare.
La sintomatologia è caratterizzata da un dolore acuto e improvviso nella regione posteriore della gamba, spesso associato a un rumore di “schiocco”. Probabilmente hai avuto la sensazione di aver ricevuto una frustata o un calcio da un avversario. La rottura del tendine d’Achille genera una impotenza funzionale immediata tale da impedire la deambulazione.
La diagnosi si basa essenzialmente sul quadro clinico: a volte è presente un vallo ben evidente in corrispondenza della rottura. Il sospetto diagnostico viene spesso confermato da un esame ecografico che evidenzia molto bene l’interruzione delle fibre tendinee e permette di distinguere tra le rotture totali e quelle subtotali.
Per trattare la rottura del tendine d’Achille è indispensabile intervenire chirurgicamente.

Tenorrafia achillea
Esistono numerosi tipi di sutura del tendine d’Achille. Questo tipo di intervento viene detto tenorrafia achillea e viene oggi eseguita con tecniche che prevedono piccolissime incisioni, tali da ovviare ai disturbi di cicatrizzazione legati alle incisioni molto lunghe, ed in grado di ridurre i tempi di recupero.
L’intervento di tenorrafia achillea viene di solito seguito dall’immobilizzazione con tutore in equinismo per 2-3 settimane e un tutore in flessione neutra per 4 settimane con carico permesso dopo la 4° settimana dall’intervento chirurgico.
Le terapie riabilitative cominciano in genere dalla 4°-5° settimana dall’intervento e si svolgono inizialmente alternando piscina e palestra.

Riabilitazione per rottura del tendine d’Achille
Dopo essere stato sottoposto ad un intervento di tenorrafia il paziente che ha subito la rottura totale del tendine d’Achille si presenta con un tutore bloccato in equinismo a 20° dopo trenta giorni. Dopo il primo mese è possibile effettuare una visita medica accurata e iniziare il programma riabilitativo.
Il primo obiettivo è quello di ridurre la flogosi e il dolore con massoterapia drenante, ultrasuoni ad immersione, laser e di recuperare gradualmente l’articolarità e la corretta deambulazione: per il mese successivo è possibile concedere il carico ma solo con tutore tipo walker; in questa fase sono utili esercitazioni in piscina di mobilizzazione passiva e attiva e allungamento della catena posteriore per permettere un più rapido recupero della mobilità e una più sicura ripresa dello schema del passo.
Ottenuto il carico completo dal chirurgo è possibile progredire nel programma terapeutico in palestra con esercizi di rinforzo concentrico ed eccentrico progressivo dei gemelli, del soleo, dei tibiali, peronei, intrinseci del piede, quadricipite sia a corpo libero che con attrezzi ed esercitazioni aerobiche su bici, ellittica, tapis roullant, per il recupero metabolico; è la fase più lunga ed è importante gestire bene i periodi di carico e scarico di forza per permettere di arrivare al test isocinetico con una differenza di forza tra i due arti < del 20%.
Superato il test, l’ultimo obiettivo è quello del recupero del gesto atletico in campo dove vengono effettuate esercitazioni propedeutiche al recupero della corsa rettilinea, in curva, balzi, percorsi e fondamentali tecnici dello sport praticato.
È fondamentale prima della dimissione aver recuperato il 100% di forza al test isocinetico e aver recuperato l’attività metabolica ottimale misurata con un test di soglia.

Rottura del menisco

La rottura del menisco può verificarsi durante i movimenti combinati di flessione e rotazione tipici delle distorsioni traumatiche. Una lesione può verificarsi però anche in seguito ad un banale movimento o spontaneamente nelle persone più anziane a causa della degenerazione cartilaginea e della perdita di elasticità.
La sintomatologia della lesione meniscale varia da una fitta intensa e localizzata all’interlinea articolare ad un male sordo e poco definito che si riacutizza in certi movimenti.
Lesioni del menisco importanti possono provocare un vero e proprio blocco articolare che il più delle volte tende a risolversi con opportune manovre di basculamento in flesso-estensione.
Soltanto in caso di lesione particolarmente grave verrà proposto un intervento chirurgico al menisco.

Riabilitazione per rottura del menisco (laterale e mediale)
Il trattamento conservativo dopo rottura del menisco sta diventando il trattamento elettivo perché ormai è assodato che il menisco, soprattutto il mediale, partecipa alla stabilità del ginocchio quindi si tenta di preservarlo.
Il protocollo riabilitativo inizialmente mira a ridurre il dolore, il gonfiore e a recuperare l’articolarità, senza forzare la flessione soprattutto oltre i 90°. Nella fase iniziale è molto importante il trattamento all’interno della vasca riabilitativa, perché permette una riduzione del carico, un maggior rilassamento muscolare e un recupero precoce dell’articolarità.
Passato il processo infiammatorio iniziale si può passare alla fase del recupero muscolare del quadricipite, sia in modalità concentrica che eccentrica, dei flessori e del polpaccio, soprattutto in modalità eccentrica e del gluteo ; contestualmente si effettuano esercitazioni di equilibrio e propriocezione e di educazione al movimento.

Tendinopatia achillea

Sotto il nome generico di tendinopatia achillea rientrano una serie di patologie di tipo infiammatorio e degenerativo catalogate a seconda dei casi come tendiniti, tendinosi e tendiniti inserzionali.
Possono essere la conseguenza di un evento acuto scatenato da un sovraccarico funzionale o da microtraumi ripetuti spesso favoriti da calzature non idonee, terreni duri o riscaldamento inappropriato prima dell’attività fisica.
Inizialmente i sintomi tendono a peggiorare a riposo (i primi passi al risveglio sono particolarmente fastidiosi) e migliorano “a caldo”. In seguito il dolore non scompare con l’attività ma la limita fino a renderla impossibile. L’errata sollecitazione della porzione distale del tendine può nel tempo portare ad una borsite complicando ulteriormente il quadro clinico.
La diagnosi della tendinopatia achillea si basa sul quadro clinico caratterizzato da dolore, gonfiore, arrossamento della cute, e viene confermata dall’ecografia che chiarisce sede, grado ed estensione della lesione.
Il trattamento di una tendinopatia è sempre molto delicato e le possibilità di successo dipendono dalla gravità del quadro patologico e dal tempo di insorgenza della sintomatologia. È comunque fondamentale impostare precocemente il trattamento riabilitativo.

Lussazione della rotula

La lussazione della rotula, soprattutto quella esterna è abbastanza frequente. Spesso è legata ad una predisposizione congenita di malallineamento per cui spesso si presentano episodi recidivanti; in altri casi è un fenomeno acuto legato all’entità dello stress traumatico.
Solitamente comporta il verificarsi frequente di un trauma distorsivo accompagnato dalla sensazione di “qualcosa fuori posto” e conseguente cedimento del ginocchio.
Generalmente la lussazione si riduce spontaneamente.
La sintomatologia della lussazione rotulea è caratterizzata da dolore, gonfiore, deficit di articolarità e zoppia.
Il trattamento conservativo della lussazione della rotula richiede l’utilizzo di una ginocchiera e il completamento di un ciclo di riabilitazione. La riabilitazione si basa soprattutto su tecniche di rinforzo muscolare specifico dei muscoli della coscia. Un adeguato tono muscolare è infatti fondamentale per stabilizzare la rotula e per evitare recidive.

Riabilitazione per lussazione della rotula
Nella lussazione acuta della rotula il gonfiore compare subito ed è molto forte, specialmente prima delle riduzione della lussazione.
La prima fase della riabilitazione è incentrata proprio sul controllo del dolore e riduzione del gonfiore attraverso l’utilizzo di terapie fisiche antiedemigene e massoterapia drenante e sul recupero della forza dei muscoli dell’anca, bacino e della caviglia. Tolto il tutore si può iniziare la mobilizzazione del ginocchio e velocemente si arriverà a una completa flessione di ginocchio e mobilità rotulea.
Fondamentale è il ruolo dell’idrochinesiterapia, che consente di recuperare precocemente la motilità del ginocchio senza dolore.
Recuperata l’articolarità si può passare alla fase del rinforzo del quadricipite, flessori e polpaccio, insistendo sul rinforzo della parte mediale (se la lussazione è esterna) soprattutto dei muscoli della zampa d’oca, vasto mediale e adduttori, dapprima in catena cinetica aperta e successivamente in chiusa.
Se non vi sono problemi si può passare al recupero dell’equilibrio e propriocezione attraverso percorsi su superfici instabili.

Frattura del metatarso

La fratture del metatarso più frequente è quella che riguarda il IVº e il Vº metatarso e nella maggioranza dei casi non viene operata.
Il quinto metatarso è l’osso più lungo della parte esterna del piede. La frattura del quinto metatarso del piede può essere di due tipi:
• frattura da avulsione: una porzione di osso viene strappata via da un tendine o da un legamento; solitamente si manifesta in seguito a una distorsione della caviglia, dopo una ricaduta da un salto o dopo un infortunio improvviso (incidenti motociclistici e automobilistici);
• frattura da stress: colpisce soprattutto gli anziani e gli sportivi all’inizio della stagione sportiva; è dovuta a un utilizzo eccessivo o ripetitivo dell’osso metatarsale.
La frattura meta si presenta con dolore acuto nella parte esterna del piede, rigidità, gonfiore, formazione di ematomi, difficoltà di deambulazione.
Per la diagnosi corretta è indispensabile effettuare una radiografia del piede.
Nel caso della frattura del metatarso è possibile optare per un trattamento non chirurgico oppure per un intervento chirurgico.
Il trattamento non chirurgico è previsto quando la frattura è localizzata fra l’unione della parte extra-articolare e intra-articolare della protuberanza del quinto metatarso; oppure presso l’articolazione prossimale del quinto metatarso.
Di solito è necessaria l’immobilizzazione dell’articolazione con un gesso per almeno 30 giorni, dopo i quali si apprezza frequentemente una notevole ipotrofia dei muscoli della gamba.
Il trattamento chirurgico invece prevede un innesto osseo o l’inserimento di una vite intramidollare (osteosintesi) ed è consigliato a tutti gli sportivi e nel caso in cui la frattura si manifesta presso l’articolazione distale del quinto metatarso oppure nella parte centrale del quinto metatarso.
Il periodo riabilitativo in seguito alla frattura metatarsale inizia con un carico sfiorante e progressivo sino all’abbandono completo delle stampelle.
È indispensabile recuperare articolarità, fluidità e propriocezione. Viene impostato un programma di rinforzo muscolare di tutto l’arto inferiore, fino alla riabilitazione sul campo sport specifica.
Nel caso di osteosintesi, il percorso riabilitativo non cambia nella sostanza. Sarà anzi possibile ipotizzare una riduzione dei tempi riabilitativi nella concessione del carico.

Frattura della rotula

La frattura della rotula è spesso causata da un trauma diretto e nella maggior parte dei casi si tratta di fratture trasverse.
La sintomatologia è caratterizza da un’insorgenza rapida di gonfiore, dolore e limitazioni articolari. In caso di avvenuto intervento chirurgico, nel post-operatorio la mobilizzazione può essere effettuata precocemente durante la fisiokinesiterapia, già a partire dalla seconda settimana; il carico viene concesso dopo circa quattro settimane e normalmente l’intera rieducazione si protrae per alcuni mesi.

Riabilitazione per frattura della rotula
La frattura della rotula è seguita quasi sempre da un grosso versamento e da dolore; quindi la prima fase del trattamento è incentrata sul controllo del gonfiore attraverso terapie fisiche e massoterapia drenante; il recupero della completa articolarità inizierà fin dalle prime fasi, prestando attenzione ai limiti articolari imposti da eventuali mezzi di sintesi, quindi il rom deve essere estremamente ridotto; perciò in questo periodo è molto utile l’idrochinesiterapia per ridurre il carico applicato sull’arto e non sollecitare eccessivamente la parte traumatizzata.
Dopo il primo mese se la frattura evidenzia già i segni di una buona consolidazione è possibile iniziare il lavoro di recupero del trofismo muscolare del quadricipite, flessori, muscoli dell’anca e del bacino, dapprima in modalità isometrica, successivamente isotonica in catena cinetica chiusa e infine aperta evitando gli angoli che potrebbero scatenare dolore.
A frattura consolidata non ci sono grossi limiti nella funzionalità rotulea quindi dopo circa 2 mesi è possibile iniziare il rinforzo isocinetico, effettuare esercitazioni di propriocettiva e di equilibrio.

Distorsione della caviglia

Le distorsione della caviglia fa parte dell’esperienza di molte persone anche non sportive, ma rappresentano indubbiamente l’evento accidentale più frequente nella carriera sportiva di un atleta.
Il più frequente meccanismo di distorsione della caviglia è in inversione (rotazione interna della pianta del piede) ma può essere anche causato da una eversione (rotazione esterna della pianta del piede) e a volte i due meccanismi possono coesistere.
Il legamento maggiormente interessato nel meccanismo lesivo in inversione è il peroneo astragalico anteriore (PAA) seguito dal peroneo-calcaneare (PC) e dal peroneo astragalico posteriore (PAP), mentre le lesioni in eversione determinano una lesione a carico del legamento deltoideo.
Nel caso di distorsione della caviglia, il gonfiore è in genere immediato e il dolore può essere molto intenso; i movimenti sono molto limitati dal gonfiore e la stabilità della caviglia è compromessa nei gradi più avanzati.
In un’articolazione molto gonfia la radiografia viene quasi sempre effettuata per escludere che vi siano fratture. L’ecografia effettuata a distanza di alcuni giorni consente di evidenziare la lesione delle strutture legamentose tipiche della distorsione. In casi selezionati l’esame può essere completato con una RMN o TC.
Il trattamento riabilitativo delle lesioni traumatiche acute è fondamentale per il ripristino della stabilità della caviglia e della sua funzionalità dinamica. Alla fine del ciclo riabilitativo è poi importante che il paziente esegua un programma di mantenimento allo scopo di evitare o minimizzare le recidive.

Riabilitazione per distorsione della caviglia
La distorsione della caviglia, nella maggior parte dei casi avviene in pazienti che praticano attività sportiva, ma si può presentare anche nella vita quotidiana. Frequentemente il trauma è in inversione, ma può anche presentarsi in eversione.
Nella maggior parte dei casi il paziente dopo il trauma è già stato al pronto soccorso e quindi già in possesso di una RX per escludere fratture e ha un taping o tutore per immobilizzare l’articolazione; si presenta nel nostro centro già il giorno dopo il trauma per una visita e un’ecografia per determinare il grado della distorsione (in base al numero di lesioni legamentose). Solo con una diagnosi accurata è possibile determinare il programma terapeutico adeguato.
Il primo obiettivo del protocollo è la riduzione del gonfiore e del dolore attraverso l’utilizzo di ultrasuoni ad immersione, laser e massaggio drenante e ghiaccio; in questa fase si parla di protocollo RICE , acronimo che definisce le procedure da seguire, Rest (riposo), Ice (ghiaccio), Compression (compressione), Elevation (arto in scarico).
Una volta ridotto il gonfiore si deve recuperare l’articolarità della caviglia attraverso un pompage soft della tibio-tarsica, mobilizzazioni attive e passive, stretching specifico dei muscoli della gamba e massaggio dei muscoli del piede con l’obiettivo di recuperare la deambulazione corretta.
Contestualmente si può iniziare la parte più importante del protocollo terapeutico, quella del recupero della forza e della propriocezione, attraverso esercizi di tonificazione dei muscoli che sottendono alla caviglia, come il polpaccio, tibiale anteriore e posteriore, peronei, intrinseci del piede, muscoli plantari.
In questa fase è importante anche il rinforzo dei muscoli della core e del medio gluteo (importante per stabilizzare lateralmente l’arto).
Successivamente si può procedere ad esercitazioni più complesse come tavolette propriocettive, percorsi, balzi su tappeto elastico, andature talloni-punte su bordo interno/esterno.
L’ultima fase del programma terapeutico prevede la rieducazione sul campo sportivo con andature specifiche dello sport di provenienza, corsa in curva, percorsi, balzi e fondamentali specifici e un programma di prevenzione delle recidive.

Neuroma di Morton

Il neuroma di Morton è riconducibile ad un rigonfiamento dei rami del nervo plantare che decorrono tra il IIº e il IIIº e tra il IIIº ed il IVº metatarso.
La compressione del nervo tra le teste metatarsali è determinata dai microtraumi che si verificano durante la deambulazione e dall’utilizzo di scarpe troppo strette.
La sintomatologia legata al Neuroma di Morton è rappresentata da dolore a comparsa improvvisa, spesso paragonata ad una scossa elettrica. Spesso coesistono parestesie sulle due dita interessate.
La diagnosi è essenzialmente clinica ma la conferma può avvenire attraverso un’ecografia o una risonanza magnetica (RMN).
Il trattamento è inizialmente conservativo ma nei casi refrattari si deve ricorrere all’intervento chirurgico che consiste nell’asportazione del neuroma.

Frattura del malleolo

Le frattura del malleolo puo’ verificarsi per traumi sportivi, incidenti stradali, domestici o sul lavoro. Nella maggior parte dei casi è necessario un periodo di 30–40 giorni d’immobilizzazione con gesso o tutore.
Conseguentemente all’immobilizzazione la caviglia sarà rigida e sarà evidente una marcata e generalizzata ipotrofia muscolare.
Quando il medico ti visiterà, è fondamentale che abbia a disposizione tutte le radiografie effettuate. In particolare, è decisiva quella di controllo dopo la rimozione del gesso: solo se la frattura è ben consolidata e i malleoli sono in asse avremo un buon esito riabilitativo.
Per il pieno recupero la rieducazione dura a lungo e i tempi per consentire il carico vanno condivisi con l’ortopedico. Vengono utilizzate terapie fisiche e farmacologiche per ridurre dolore e gonfiore, terapie manuali e linfodrenaggio, esercizi propriocettivi precoci introdotti con il progredire del carico ed esercizi di rinforzo della muscolatura della caviglia. Precocemente in alternanza alla palestra per favorire il recupero della schema corretto del passo è indispensabile la rieducazione in acqua.

Intervento per frattura del malleolo
La frattura del malleolo è tra le più comuni fratture dell’arto inferiore: interessa il malleolo interno e il malleolo esterno, e spesso è associata a lesioni legamentose della caviglia.
La frattura che coinvolge i due malleoli e la porzione posteriore della tibia è definita frattura trimalleolare.
A seconda della diversa tipologia di frattura vengono effettuati interventi chirurgici diversi, con l’utilizzo di svariati mezzi di sintesi, o con fissatore esterno.
Il percorso riabilitativo può iniziare dopo un periodo di gesso, oppure con il fissatore. È importante tenere a mente che si tratta di una rieducazione lunga ed impegnativa, che richiede mediamente 4 mesi per il recupero di una funzionalità discreta ed 8 mesi per il recupero dell’attività sportiva agonistica.
In genere dopo un anno dall’intervento viene consigliata la rimozione dei mezzi di sintesi.
Il trattamento riabilitativo dopo la rimozione dei mezzi di sintesi viene effettuato per almeno un mese.

Frattura del femore
Disturbi dello spettro autistico

I disturbi dello spettro autistico sono un insieme di diverse alterazioni del neurosviluppo legate a un’anomala maturazione cerebrale che inizia già in epoca fetale, molto prima della nascita del bambino. Il disturbo si presenta in modo molto variabile da caso a caso, ma in generale è caratterizzato dalla compromissione della comunicazione e dell’interazione sociale e dalla presenza di interessi e comportamenti ristretti e ripetitivi.
Oggi si stima che almeno un bambino su 100 abbia un disturbo dello spettro autistico. I disturbi dello spettro autistico si manifestano in genere nei primi anni di vita del bambino. Generalmente i genitori sono i primi a rendersi conto delle difficoltà del loro bambino già dai 18 mesi. In casi molto lievi questo può accadere anche dopo i 24 mesi. In alcuni bambini i genitori riportano uno sviluppo apparentemente adeguato fino ai 18 mesi, seguito poi da un arresto e da una regressione di competenze già acquisite.
I primi campanelli di allarme solitamente sono:
Problemi di comunicazione e di socializzazione. I bambini con disturbi dello spettro autistico manifestano anzitutto difficoltà nella comunicazione non verbale: non guardano negli occhi ed evitano lo sguardo, sembrano ignorare le espressioni facciali di mamma e papà e non sembrano in grado di utilizzare la mimica facciale e i gesti per comunicare, hanno scarso interesse per gli altri e per le loro attività, scarso interesse per gli altri bambini, etc.;
Presenza di comportamenti stereotipati come un interesse eccessivo per alcuni oggetti o parti di oggetti, un eccessivo attaccamento a comportamenti di routine, la presenza di gesti sempre uguali e ripetuti delle mani e del corpo.